PRIMA IPOTESI
Sandro Stucchi fu il primo studioso ad interessarsi al gruppo e a formulare un’ipotesi di identificazione dei personaggi. Nel Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione del 1960, scrisse che “la ricchissima decorazione della bardatura e la presenza nelle falere delle protomi di divinità e specialmente quelle di Quirino (Giove) e di Venere, le proporzioni delle statue più grandi del naturale e la nobiltà delle figure fanno pensare che il gruppo di personaggi maschili a cavallo e di figure femminili a piedi non rappresenti personalità in vista, patroni o cittadini per qualche verso benemeriti di una città, ma personaggi della casa imperiale”. Il Professor Stucchi, nella sua prima ipotesi, sostiene che i componenti del gruppo appartengano alla famiglia imperiale della dinastia Giulio-Claudia, e nello specifico riconosce Livia (la statua più integra), madre dell’imperatore Tiberio e vedova di Augusto; Nerone Cesare, primogenito di Germanico e di Agrippina Maggiore; Druso III (la statua mancante della parte superiore del busto), fratello dell’altro cavaliere; Agrippina Maggiore, figlia di Vipsanio Agrippa e di Giulia (figlia di Augusto), moglie di Germanico e madre dei due giovani. La chiave di lettura per l’identificazione delle quattro figure è Livia: le sue caratteristiche fisionomiche e il tipo di acconciatura sono molto somiglianti a quelle presenti in diverse monete di età tiberiana e claudiana, in alcuni suoi ritratti marmorei e in un cammeo conservato presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Il monumento potrebbe essere stato realizzato con lo scopo di far conoscere al popolo le immagini di Nerone Cesare e di Druso III, adottati da Tiberio nel 23 d.C. e quindi suoi successori designati. La seconda figura femminile raffigurerebbe, per deduzione, la madre dei due cavalieri. Considerato infatti che in monete riproducenti le effigi dei due giovani da un lato, nell’altro è sempre presente il ritratto di Agrippina Maggiore, e che la donna ha avuto un ruolo rilevante nella vita dei figli, è logico pensare che sia stata rappresentata anche nel gruppo bronzeo da Cartoceto. Lo storico spiega la distruzione delle statue con la damnatio memoriae, una condanna inflitta dal senato romano che aveva lo scopo di cancellare la memoria di determinati personaggi “caduti in disgrazia”. Nerone Cesare, Agrippina Maggiore e Druso III si erano resi protagonisti di una congiura ai danni di Tiberio e per questo erano stati dichiarati nemici dello Stato. I primi due furono esiliati rispettivamente nell’isola di Ponza e Pandataria (Ventotene) e il terzo fu rinchiuso nei sotterranei del Palatino. In base a tale ipotesi le statue vennero distrutte e poi sepolte proprio nell’odierna Cartoceto di Pergola perché in epoca romana era una “terra di nessuno”, al di fuori dei confini dei municipi romani delle immediate vicinanze, e questo poteva ribadire il fatto che il ricordo dei tre cospiratori doveva essere del tutto eliminato e cancellato. Per quanto concerne la datazione, gli unici anni in cui è possibile ipotizzare un monumento raffigurante questi quattro personaggi sono quelli che vanno dal 23 al 29 d.C. L’erezione del gruppo non può essere infatti precedente al 23, anno in cui, in seguito alla morte del suo unico figlio Druso Minore, Tiberio decide di adottare Nerone Cesare e Druso III, e nemmeno successiva al 29, anno del processo e della relativa condanna dei tre esponenti della famiglia imperiale, nonché della morte di Livia.
SECONDA IPOTESI
Nel 1988 il Professor Stucchi, in seguito ad un esame più approfondito dei reperti dopo la conclusione del secondo intervento di restauro, formula una nuova tesi in base alla quale le identificazioni dei personaggi risultano parzialmente modificate. Per le prime due statue, partendo da destra, lo studioso conferma l’identità di Livia e di Nerone Cesare, mentre per le altre due figure ipotizza la presenza di Tiberio (al posto di Druso III) e di Giulia, moglie di Nerone Cesare (invece di Agrippina Maggiore). Fondamentale per la formulazione di questa seconda ricostruzione è l’analisi delle immagini raffigurate nelle falere che ornano il muso dei cavalli, a cui lo Stucchi attribuisce una valenza simbolica. Nel primo cavallo, in alto, nel posto d’onore, è presente Venere, divinità da cui discende la gens Giulia, e ciò potrebbe essere un chiaro riferimento all’appartenenza del cavaliere a tale famiglia. Il piccolo disco vuoto, posto in basso sopra le froge, viene messo dallo Stucchi in relazione con la testa di felino, abbastanza simile ad un leone, collocata nella stessa identica posizione nell’altro cavallo, e per lo storico tale figura non poteva non essere un chiaro riferimento all’imperatore e al suo imperium. Il leone, dominatore del regno animale, è un evidente simbolo di potenza e può quindi alludere alla superiorità di Tiberio su tutti gli uomini; di conseguenza il disco vuoto indica una mancanza di potere, dato che in quel momento Nerone Cesare non era ancora diventato (e non lo diventerà mai!) imperatore. L’identità di Tiberio è confermata dall’immagine di Giove, la divinità principale del pantheon romano, posta qui a protezione della personalità più importante e quindi dell’imperatore. Una identica interpretazione può essere fornita per le decorazioni che ornano i baltei di entrambi gli animali. Nel cavallo che lo Stucchi attribuisce a Tiberio vi sono una Nereide ed un Tritone che reggono uno scudo circolare mostrato frontalmente, che può significare un voler esibire la sovranità e le virtù dell’imperatore. Nel cavallo di Nerone Cesare invece le due divinità marine sostengono il disco di profilo, posizione che non permette di riflettere lo stesso potere dato che, in qualità di successore designato, non lo ha ancora raggiunto. La seconda figura femminile, per deduzione, viene identificata con Giulia, che sposa Nerone Cesare nel 21 d.C. Con questa unione l’imperatore voleva appianare i contrasti sorti con la famiglia di Germanico, in quanto Giulia era sua nipote e nello stesso tempo moglie del suo successore. Per quanto riguarda la distruzione del gruppo e il sotterramento dei frammenti nell’odierna Cartoceto di Pergola, considerate le nuove identificazioni dei personaggi, tra cui lo stesso Tiberio, decade la tesi della damnatio memoriae. Lo Stucchi, partendo dalla presenza nella terra di fusione di minerali di origine vulcanica, ipotizza che il gruppo sia stato realizzato forse in un’officina ubicata nel Lazio. Durante il trasporto lungo la Via Flaminia verso una destinazione sconosciuta, probabilmente un municipio marchigiano, le statue potrebbero essere state sottratte da briganti, che le avrebbero distrutte e poi nascoste in una zona abbastanza vicina alla via consolare. Considerato poi il fatto che i frammenti erano posizionati nella fossa di Cartoceto uno sull’altro in modo accurato, quasi in attesa di circostanze opportune per un loro riutilizzo, lo Stucchi sostiene che le parti mancanti furono in seguito recuperate da tale deposito e riadoperate dagli stessi banditi.
Il Professor Braccesi, docente di Storia Antica all’Università di Padova, avanza dei dubbi relativi ad alcune delle argomentazioni proposte da Sandro Succhi. Lo storico condivide il voler riconoscere nella prima figura femminile Livia, ma afferma che tale importante matrona romana, madre di Tiberio e moglie di Augusto, non avrebbe mai potuto subire la damnatio memoriae. Il primo cavaliere, che lo Stucchi identifica con Nerone Cesare, ha l’aspetto di un uomo maturo, che poco si adatta all’età, dai 17 ai 23 anni, che avrebbe avuto il figlio di Germanico al momento dell’erezione del gruppo statuario; del giovane inoltre non si conosce la fisionomia del volto. Partendo dalla convinzione che in origine le statue dovevano essere esposte in un municipio non troppo distante dal luogo di ritrovamento, il Braccesi propone Pesaro, l’antica Pisaurum, come sede di provenienza del monumento equestre. A Pesaro, municipio legato da un rapporto molto stretto con Augusto e la sua famiglia, era nato, come testimoniato da Cicerone, il padre di Livia, Marco Livio Druso Claudiano, e grazie ad esso la città poteva beneficiare di onori e privilegi superiori a quelli di altri municipi. Lo studioso prende in considerazione anche l’epigrafe commemorativa, rinvenuta a Pesaro, che celebra il padre di Augusto, Gaio Ottavio, e spiega tale inusuale dedica con l’ipotesi dell’esistenza di un’altra iscrizione, oggi perduta, in onore anche del padre di Livia. Per il Braccesi, i bronzi dorati dovevano essere pertinenti ad un contesto celebrativo di connotazione augustea anziché tiberiana e, vista l’età avanzata della prima figura femminile, realizzati in anni abbastanza vicini alla morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C. Potrebbe trattarsi quindi di un monumento eretto a Pesaro per commemorare Augusto e onorare sua moglie Livia e in cui potevano essere presenti personaggi o morti da tempo oppure ancora in vita. Partendo dalla convinzione che la distruzione e il conseguente sotterramento avvenne in età antica, le statue potrebbero essere finite a Cartoceto in modo del tutto accidentale per saccheggio da parte dei barbari o dei ladri. Nel periodo delle invasioni barbariche e nei secoli bui del Medioevo era diventata una consuetudine rifondere opere del passato per poter riutilizzare in molteplici modi il metallo, molto prezioso e in Occidente anche scarsamente reperibile. Il Braccesi nella sua prima ipotesi fa il nome degli Jutungi, popolo barbarico di stirpe germanica, i quali, prima di essere sconfitti dall’imperatore Aureliano nel territorio pesarese o nella vicina Fano, potrebbero aver razziato il gruppo bronzeo a Pesaro nel 270 o 271 d.C. Durante la battaglia, prima di essere costretti alla fuga dall’esercito romano, potrebbero aver nascosto a Cartoceto parte del bottino forse con la speranza di recuperarlo successivamente. Secondo l’altra tesi del Professor Braccesi, i bronzi dorati, probabilmente nel V secolo, in un periodo di decadenza non solo politica ma anche economica, sarebbero stati rimossi da Pesaro con l’intento di trasportarli verso Roma per rifondere le statue e riutilizzare quindi il metallo. Percorrendo la Via Flaminia, nel tratto che collega Pesaro a Roma, il prezioso carico potrebbe essere stato sottratto da una banda di briganti, la cui presenza nei pressi di Cartoceto di Pergola è attestata da un’iscrizione, risalente al 246 d.C., posta all’altezza della Gola del Furlo. Gli autori del saccheggio potrebbero essersi spartiti il bottino frammentando le statue e nascondendone una parte in un luogo non lontano da quello dell’aggressione e nello stesso tempo vicino ad una strada di quell’epoca che ne poteva facilitare il trasporto. Nella località di Santa Lucia di Calamello passava una via secondaria della Flaminia, meno soggetta a controlli, e quindi preferibile sia per passare inosservati che per nascondere la refurtiva in vista di un successivo recupero. Forse a causa della scomparsa di coloro che conoscevano il luogo del nascondiglio, i frammenti bronzei rimasero dimenticati nella fossa di Cartoceto, salvandosi in questo modo dalla consuetudine di rifondere opere del passato per riutilizzarne il metallo.
Nel 1993 il Professor John Pollini del Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università Sud California di Los Angeles, pubblicò nell’American Journal of Archeology la sua ipotesi riguardante l’identificazione dei personaggi raffigurati nel gruppo bronzeo. Per lo studioso non si tratterebbe né di membri della dinastia imperiale Giulio-Claudia, né di esponenti di una qualche importante famiglia proveniente da un municipio ubicato non lontano dal luogo di ritrovamento, ma le personalità ritratte apparterrebbero ai Domizi Enobarbi, una potente stirpe dell’aristocrazia romana che godette di grande prestigio nell’ultimo periodo della Repubblica e all’inizio del Principato. Rispetto all’ipotesi del professor Sandro Stucchi, Pollini retrodata la realizzazione del gruppo, inverte le posizioni delle statue femminili, e puntualizza che sarebbe più verosimile parlare di un saccheggio piuttosto che di una damnatio memoriae come causa della distruzione. La sua argomentazione prende in esame anche la mancanza di tracce lasciate dai tenoni di piombo (che servivano per ancorare la base delle sculture alla pietra), la cui assenza gli fa supporre che il gruppo non sia stato mai esposto. Secondo lo storico le statue erano destinate o ad un municipio situato nelle vicinanze di Cartoceto, o ad una località più lontana, come ad esempio Ravenna, Ariminum (Rimini), Pisaurum, Fanum Fortunae (Fano), o Ancona; durante il loro trasporto lungo la Flaminia una banda di briganti potrebbe aver sottratto il prezioso carico con l’intento di rifondere il bronzo e raschiare via la foglia d’oro. Rispetto all’identificazione dei personaggi formulata dal professor Sandro Stucchi, lo studioso statunitense obietta che il volto del primo cavaliere è quello di un uomo di mezza età, di circa quarant’anni, le cui caratteristiche fisionomiche poco si adattano alla giovane età di Nerone Cesare. Inoltre i lineamenti del viso e l’acconciatura della prima figura femminile non sono del tutto somiglianti a quelli presenti nei ritratti di Livia e lo stesso discorso si può estendere al naso, in cui non compare la protuberanza centrale tipica delle raffigurazioni della matrona; la bocca è troppo ampia e le labbra troppo sottili. Pollini nota anche molte affinità tra il ritratto del primo cavaliere e una testa di marmo esposta nei Musei Vaticani: il tipo di pettinatura, la forma del viso, le rughe orizzontali sulla fronte, le sopracciglia leggermente corrugate, gli occhi piccoli e infossati, la forma della bocca e del naso, il mento sporgente sono del tutto simili. Inoltre il ritrovamento di due ritratti dello stesso personaggio, per di più in aree geografiche lontane tra loro, può essere considerato una prova per dimostrare che ci troviamo di fronte non ad un’importante personalità legata ad un municipio situato nelle vicinanze di Cartoceto, ma ad un esponente dell’aristocrazia romana. Le calzature, visibili nella Statua II, caratterizzate da lunghi lacci con doppi nodi e quattro stringhe, sono riconducibili alla tipologia dei calcei, che facevano parte dell’abbigliamento dei patrizi e dei senatori, confermando quindi l’importanza delle persone raffigurate nel gruppo. La datazione è suggerita dall’acconciatura della prima figura femminile, di moda tra le matrone romane intorno alla metà del I sec. a.C., anche se Pollini sottolinea che lo stile del drappeggio delle vesti dei personaggi rimanda invece al periodo compreso tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C. Le decorazioni presenti nei pettorali dei cavalli con simboli marini, Nereidi e Tritoni, fanno pensare che i due cavalieri siano stati dei vittoriosi comandanti e che le statue possano aver commemorato una loro vittoria navale avvenuta nell’ultimo quarto del I sec. a.C. Secondo lo storico la gualdrappa adoperata al posto della sella, la cui usanza deriva dai Greci, e prima ancora dai Persiani, e i ciuffi delle criniere dei cavalli, sono chiari riferimenti al mondo orientale e indicano il ruolo rivestito dalle due figure maschili, probabilmente protagonisti di campagne in Oriente. Il luogo di rinvenimento delle statue potrebbe essere un indizio del fatto che la famiglia raffigurata nel gruppo equestre abbia avuto dei legami con un qualche municipio dell’area medio-adriatica. Pollini ipotizza che il monumento sia stato commissionato da Lucio Domizio Enobarbo (nonno dell’imperatore Nerone e console nel 16 a.C.) tra il 25 a.C. e l’1 d.C., e che raffiguri Porcia (Statua I) e suo marito Lucio Domizio Enobarbo (Statua II; console nel 54 a.C.), il loro figlio Gneo Domizio Enobarbo (Statua III; console nel 32 a.C.), e forse Emilia Lepida (Statua IV), moglie di Gneo. È certo che la ricca famiglia dei Domizi Enobarbi possedeva vaste proprietà terriere in diverse parti d’Italia, soprattutto nel territorio ad est di Roma, e che ebbe importanti legami matrimoniali con la famiglia di Ottaviano Augusto. Gneo Domizio Enobarbo aveva quarant’anni quando conseguì il consolato, età in cui presumibilmente venne ritratto sia nel gruppo bronzeo che nella testa dei Musei Vaticani. Le decorazioni presenti nel balteo (pettorale) del cavallo della Statua III con figure di Nereidi, Tritoni, cavalli marini, delfini, strumenti nautici, così come la figura di Venere, dea nata dal mare, potrebbero essere un preciso richiamo alle sue vittorie navali. È quindi plausibile che nei municipi posti a nord e a sud di Cartoceto, lungo la costa orientale dell’Adriatico, Gneo sia stato onorato insieme alla sua famiglia. Nella figura riconosciuta come Porcia, si può notare una certa somiglianza (profilo del naso, forma della bocca e del mento) con i ritratti del fratello, Marco Porcio Catone Uticense, che in qualche modo ne avvalora l’identificazione. La statua II dovrebbe rappresentare suo marito Lucio Domizio Enobarbo, che morì nel 48 a.C. nella battaglia di Farsalo. La falera con l’immagine di una divinità maschile barbuta raffigurerebbe per Pollini non Giove, come sostenuto dallo Stucchi, ma Nettuno, dio del mare, e sarebbe un riferimento alle sue vittorie navali. La posizione affiancata dei due cavalieri potrebbe essere un’allusione ai Dioscuri: secondo la tradizione il cognome di Enobarbi, i cui componenti maschili assunsero tutti il nome, in maniera alternata, di Gneo e Lucio, deriverebbe dall’incontro di un Lucio Domizio, con due gemelli di straordinaria bellezza, poi riconosciuti come i mitici figli di Zeus, i quali gli ordinarono di annunciare al Senato e al popolo una vittoria, e per dargli una prova della loro divinità gli toccarono il mento e la barba che da nera diventò rossa. La Statua IV, per deduzione, potrebbe raffigurare la moglie di Gneo, il cui nome secondo alcuni studiosi era Emilia Lepida, matrona appartenente ad una delle più importanti famiglie patrizie del periodo compreso tra la fine della Repubblica e l’inizio del Principato.
Nella sua ipotesi di identificazione (1998) il Professor Coarelli dell’Università di Perugia parte da una attenta osservazione dei particolari delle singole statue. Come John Pollini, egli non condivide la tesi dello Stucchi per una serie di ragioni, tra le quali l’aspetto maturo del primo cavaliere, non consono alla giovane età che avrebbe dovuto avere Nerone Cesare, e il ritratto della matrona non somigliante all’immagine conosciuta di Livia. Per il docente l’acconciatura della prima figura femminile e la presenza di elementi tipici della ritrattistica romana di età tardo-repubblicana rimandano ad una datazione compresa tra il 50 e il 30 a.C. I personaggi effigiati non sarebbero componenti della dinastia imperiale Giulio- Claudia ma membri di un’importante famiglia di rango senatoriale originaria del municipio romano di Sentinum. Secondo il Coarelli il gruppo bronzeo era esposto in un luogo non troppo distante da quello del ritrovamento e, considerato il buono stato di conservazione dell’oro, distrutto poco tempo dopo la realizzazione in modo volontario e molto violento. Per riuscire a dare un nome ai personaggi, l’indagine dello storico si concentra sulle famiglie di rango senatoriale o perlomeno equestre, legate ai tre municipi più vicini a Cartoceto di Pergola, nello specifico Sentinum, Forum Sempronii, Suasa Senonum, in cui gli uomini dovevano aver rivestito importanti incarichi militari nell’ultimo periodo della Repubblica e le donne aver avuto un ruolo centrale nella loro ascesa politica. La famiglia raffigurata ebbe probabilmente uno stretto legame con l’ambiente del mare, desumibile dalle decorazioni presenti nei baltei dei cavalli, ed i suoi componenti maschili forse scomparvero improvvisamente dalla scena politica, e subirono una damnatio memoriae, che comportò come diretta conseguenza la distruzione delle statue. Il Coarelli riesce a restringere il campo delle possibili ipotesi ad una sola famiglia, quella dei Satrii, legata ai centri romani di Suasa e di Sentinum, come attestato dal rinvenimento di alcune iscrizioni. Partendo da destra il primo cavaliere viene identificato con Marco Satrio, probabile patrono del municipio romano di Sentinum, luogotenente di Cesare in Gallia e pretore nel 45 a.C., mentre il secondo sarebbe suo zio materno, nonché padre adottivo Lucio Minucio Basilo. Le due figure femminili, delle quali le fonti storiche non ci hanno tramandato i nomi, potrebbero essere la moglie (statua mancante della parte superiore del busto) e la madre di Marco Satrio, sorella anche di Lucio Minucio Basilo, che favorì l’adozione del figlio e quindi il suo ingresso nell’ordine senatorio. Il gruppo bronzeo, ragionevolmente esposto nel municipio romano di Sentinum, potrebbe essere stato commissionato da Marco Satrio nel 45 a.C. in seguito al suo accesso alla pretura. Quest’ultimo nel 44 a.C. partecipò attivamente alla congiura contro Cesare e l’anno dopo, nel 43, venne ucciso dai suoi stessi schiavi. Nel 41 a.C. Ottaviano, il futuro imperatore Augusto, durante la battaglia di Perugia contro Lucio Antonio (fratello di Marco Antonio), conquistò Sentinum, qui potrebbe aver visto il monumento che raffigurava uno degli assassini di suo padre adottivo e averne decisa la distruzione immediata. Questa ipotesi spiega il luogo del ritrovamento avvenuto al di fuori del territorio del municipio che aveva ospitato le statue, l’ottimo stato di conservazione dell’oro e la particolare violenza usata soprattutto contro il volto del primo cavaliere, ma non fa luce sulla fine fatta dai frammenti mancanti.
Il professor Viktor H. Böhm dell’Università di Vienna nel 2000 scrisse un articolo per la rivista tedesca Antike Welt (Mondo antico), in cui formulò una singolare ipotesi di identificazione dei personaggi e di collocazione delle statue. Il primo elemento chiave che va evidenziato riguarda la convinzione da parte dello studioso austriaco, di aver trovato diverse analogie paragonando il volto del primo cavaliere con alcuni ritratti14 del filosofo e oratore Marco Tullio Cicerone. Tali similitudini sono nello specifico: una certa asimmetria del viso, il tipo di pettinatura, l’attaccatura dei capelli ai lati della fronte, la forma della calotta cranica, la fronte, la protuberanza sopra gli occhi, il dorso e la punta del naso, il labbro superiore più carnoso e sporgente di quello inferiore e i lobi delle orecchie abbastanza pronunciati. Il secondo dato rilevante è la presenza nell’isola greca di Samos di un’esedra (grande basamento a forma di semicerchio) antistante l’Heraion di Samos, nota anche con il nome di Esedra dei Ciceroni, sulla quale era collocato un gruppo onorario raffigurante la famiglia dell’oratore. In base all’analisi delle iscrizioni, è stata avanzata un’ipotesi di identificazione dei personaggi che vi erano rappresentati: Marco Tullio Cicerone, Terenzia, la sua prima moglie, Marco Tullio Cicerone Junior, il figlio, la dea Thyche-Fortuna, al centro, di maggiori dimensioni e più arretrata, Quinto Tullio Cicerone Junior, figlio di Quinto Tullio Cicerone, Pomponia, sua madre, e Quinto Tullio Cicerone, fratello di Marco. Il gruppo bronzeo rinvenuto a Cartoceto potrebbe quindi provenire da Samos, giunto a noi però mancante di tre figure (quelle dei due figli e quella centrale della divinità). A sostegno di tale ipotesi il Böhm sottolinea che le basi delle statue si incastrerebbero perfettamente nei fori dell’esedra in cui erano posizionati i tenoni che avevano la funzione di mantenerle erette. Nel 51 a.C. Cicerone fu mandato in Cilicia, regione in cui si trovava l’isola, a ricoprire il ruolo di proconsole per circa un anno, periodo tecnicamente sufficiente per la realizzazione del monumento; i Ciceroni potrebbero quindi essere stati celebrati con un gruppo onorario prima del loro rientro a Roma, avvenuto nel 50 a.C. Il docente austriaco interpreta il braccio destro del primo cavaliere, sollevato e proteso in avanti, come un messaggio di pace, perfettamente in linea con le azioni politiche dei due fratelli che cercarono sempre di assicurare armonia e concordia alle popolazioni di quella provincia dell’Asia. Inoltre le due immagini delle falere centrali a forma di mandorla, presenti sui finimenti dei cavalli, a suo avviso non rappresentano Marte, ma i Dioscuri ritratti in posizione di riposo dopo un’azione militare. Il loro copricapo è un pileo, tipico dei due leggendari fratelli, molto più leggero e pratico rispetto all’elmo, indossato anche dai Ciceroni quando si spostavano a cavallo nelle provincie dell’Asia per proteggersi dal sole e dalle intemperie. Lo storico collega la rimozione delle statue dall’esedra di Samos alle decisioni prese dai triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido dopo l’assassinio di Cesare. I Ciceroni vennero prima inclusi nelle liste di proscrizione e in seguito uccisi dai sicari mandati da Marco Antonio, contro il quale si erano precedentemente diretti i duri attacchi denigratori pronunciati dall’oratore. In seguito alla battaglia di Filippi, al triumviro vennero assegnate le province d’Oriente, tra cui l’Asia Minore e la Grecia; l’isola di Samos entrò quindi sotto la sua giurisdizione. Plutarco tramanda che Marco Antonio e Cleopatra amavano trascorrere lunghi periodi a Samos e quindi non potevano non conoscere (e di conseguenza tollerare!) il monumento onorario che celebrava Marco Tullio Cicerone, loro acerrimo nemico. Antonio potrebbe aver fatto rimuovere le statue dall’Heraion di Samos ed averne ordinato il trasferimento in Italia forse come personale bottino. La zona di ritrovamento può essere messa in relazione con il fatto che, dopo la battaglia di Filippi, nello stesso territorio il triumviro aveva insediato numerosi veterani e che il municipio romano di Pisaurum era una delle sue colonie militari più importanti. Può essere quindi lecito supporre che Marco Antonio abbia fatto trasferire il gruppo bronzeo proprio in questa parte d’Italia. La città romana di Pisaurum, nel 31 a.C. fu colpita da un forte terremoto; dei briganti potrebbero aver approfittato di questa catastrofe per sottrarre dal deposito le statue e nasconderle nelle campagne circostanti.
Nel 2009 Hans Beck e Michael Fronda, entrambi studiosi di storia romana e docenti presso la McGill University di Montréal in Canada, pubblicano all’interno della rivista semestrale The Ancient world un interessante studio sui Bronzi da Cartoceto. I due storici sono convinti che il gruppo equestre rappresenti una famiglia di rango senatoriale, vissuta nella seconda metà del I secolo a.C. Per gli studiosi è più probabile che le persone raffigurate, a cui è quasi impossibile dare un’identificazione certa, siano originarie della stessa città di Roma, o comunque del territorio laziale, mentre sembra meno plausibile un legame diretto della famiglia con la zona di rinvenimento del gruppo bronzeo. Analizzando poi i diversi contesti a cui le statue sarebbero potute essere destinate, essi escludono possa trattarsi di un ambito funerario, sia per il tipo di materiale utilizzato (normalmente si impiegava la pietra o il marmo), sia perché nella maggior parte dei casi l’immagine dei personaggi defunti veniva comunque rappresentata con figure in rilievo e mai, o quasi mai, con statue intere e a tutto tondo. I due storici non escludono del tutto la possibilità che il gruppo sia stato progettato per essere esposto in un ambiente privato, come per esempio il cortile o il portico di una villa aristocratica, ma l’ipotesi più probabile rimane quella che i bronzi siano stati progettati con una finalità onorifica e quindi collocati in un contesto pubblico, sopra un arco oppure su di un basamento al centro di una piazza di un importante municipio. Essi pongono inoltre l’accento sul fatto che il gruppo da Cartoceto, a differenza della maggior parte dei monumenti statuari dell’epoca, rappresenti i membri di un’intera famiglia: qui non è più un unico e solo personaggio ad essere protagonista (il più delle volte erano consoli o senatori meritevoli di trionfo), ma è un intero nucleo familiare che si prende la scena comprese le figure femminili. Chiunque abbia commissionato i bronzi era desideroso di esprimere una forte identità di gruppo e di porre l’accento quindi non tanto sull’onore e la gloria militare, quanto sullo stretto legame che univa i membri del gruppo stesso. Beck e Fronda hanno inoltre tentato, seppur con tutti i limiti del caso, di dare un valore monetario al gruppo equestre. Nonostante le diverse variabili di cui tenere conto, per esempio i prezzi diversificati a seconda della zona o le mutevoli condizioni economiche dovute all’inflazione, essi arrivano comunque ad ipotizzare una cifra finale. Tale importo è anche il risultato di varie analisi e confronti effettuati dai due studiosi con i prezzi conosciuti di altre statue, seppur di dimensioni e materiali diversi, commissionate e realizzate in quel periodo. Sommando quindi il costo di ogni singola spesa e cioè materie prime, manodopera, basamento, trasporto e manutenzione, il prezzo totale da loro teorizzato raggiunge la cifra di circa 50.000 sesterzi.
Secondo i due docenti solo pochissime famiglie dell’epoca sarebbero state in grado di pagare tale somma per un singolo monumento; inoltre se è vero che più alto era il valore delle statue e maggiore era il potere e lo status sociale che si voleva dimostrare, probabilmente i bronzi da Cartoceto rappresentano una delle famiglie romane più importanti e influenti del periodo tardo- repubblicano.
L’ex Soprintendente per i Beni Archeologici delle Marche nel dicembre del 2013 ha presentato la sua ipotesi sul monumento equestre rinvenuto a Cartoceto di Pergola. Pagano sostiene che nel gruppo siano ritratte eminenti personalità della Roma tardo-repubblicana: il console e senatore Lucio Licinio Murena figlio (cavaliere di cui si è conservato il busto ma non le gambe), il senatore e propretore Lucio Licinio Murena padre (figura maschile mancante della parte superiore), Terenzia (la statua femminile più completa), consorte di L. Licinio Murena figlio, e la moglie di L. Licinio Murena padre (matrona della quale è giunta sino a noi solo la porzione inferiore del corpo). Importanti per l’individuazione dei due personaggi maschili sono stati un passo della Pro Murena, in cui Cicerone afferma che L. Licinio Murena figlio godeva di ampio appoggio elettorale nei municipi umbri, e le decorazioni presenti nella bardatura inferiore dei cavalli, che potrebbero alludere ad una vittoria navale. Lo studioso mette in evidenza che nel pettorale del cavallo di L. Licinio Murena padre sono raffigurati una nereide ed un tritone che reggono uno scudo visto frontalmente e ciò potrebbe rimandare ad una delle sue vittorie in mare durante le guerre mitridatiche ed al fatto che nell’81 a.C. ottenne il trionfo. Le decorazioni del cavallo di L. Licinio Murena figlio con simili richiami all’ambiente marino indicherebbero la sua partecipazione al terzo conflitto combattuto contro il re del Ponto. Il gruppo statuario venne probabilmente realizzato, come ringraziamento per i benefici ricevuti dai municipi umbri, quando L. Licinio Murena figlio rivestì il consolato (62 a.C.) o subito dopo, e ragionevolmente esposto nel foro della città romana di Sentinum, forse all’interno della basilica civile. Pagano ritiene che le statue provengano da Sassoferrato soprattutto per il ritrovamento all’interno del Parco Archeologico di Sentinum di tracce di una rilevante officina metallurgica, presumibilmente in grado di realizzare anche opere di grandi dimensioni. Inoltre durante gli scavi effettuati nell’area è venuto alla luce un frammento di bronzo dorato (Museo Civico di Sassoferrato) datato nello stesso periodo del gruppo equestre esposto a Pergola e con una lega metallica del tutto simile. Lo studioso pone l’accento anche sul luogo di rinvenimento, l’attuale Cartoceto di Pergola, situato lungo una via abbastanza trafficata che metteva in comunicazione il municipio romano di Sentinum con quello di Forum Sempronii e quindi con la Flaminia. Durante la guerra greco-gotica il monumento equestre potrebbe essere stato razziato nel 552 (prima della battaglia di Tagina e della morte di Totila) dai Goti, i quali, con un gesto di sfregio e di spregio, frantumarono le statue e infierirono in particolare contro il volto di Lucio Licinio Murena figlio, colpendolo in quanto esponente della classe senatoriale romana, rea di essersi schierata dalla parte dei Bizantini. Secondo l’ipotesi di Pagano i tenoni di piombo vennero tolti per ricavarne proiettili, mentre le parti in bronzo avrebbero dovuto essere rifuse con lo scopo di riutilizzare il metallo per la fabbricazione di monete e armi. Durante il trasporto, per scongiurare il pericolo di incontrare i Bizantini, i Goti si alleggerirono di parte del pesante carico nascondendolo nelle vicinanze della strada che collegava Sentinum a Forum Sempronii, con l’intento di recuperarlo in un secondo momento. Questa potrebbe essere la ragione della mancanza di alcune parti delle statue.
Nel gennaio del 2014 lo storico emiliano ha pubblicato sulla stampa locale la sua ipotesi riguardante il gruppo bronzeo. Gli indizi emersi lo portano a sostenere che le statue potevano ragionevolmente essere esposte sopra l’Arco di Augusto a Rimini, che aveva la duplice funzione di arco onorario e porta di accesso alla città. Il municipio romano di Ariminum era un’importante località costiera e ciò potrebbe spiegare i riferimenti al mare presenti nei baltei dei due cavalli; inoltre il luogo di rinvenimento dei bronzi dorati si trovava non lontano dalla Flaminia, la strada che collegava Roma a Rimini. La via consolare terminava proprio sotto l’Arco di Augusto, costruito nel 27 a.C. per volontà di Ottaviano Augusto, nel punto dove prima esisteva Porta Romana, una delle porte d’accesso alla città. Danilo Re colloca la datazione delle statue nella seconda metà del I sec. a.C. soprattutto per le caratteristiche dell’acconciatura della prima figura femminile, tipica di quel periodo storico. Il cavaliere con il braccio destro proteso in avanti e con il paludamentum appoggiato sulla spalla, viene identificato con Giulio Cesare per alcune caratteristiche fisionomiche (ampia stempiatura, rughe orizzontali, sopracciglia aggrottate) abbastanza simili a quelle presenti nella sua consueta iconografia. Le differenze riscontrabili soprattutto nella forma degli occhi e nell’incavatura delle guance possono essere spiegate come inevitabili difficoltà incontrate durante le operazioni di restauro a causa della deformazione del metallo. In base a tale ipotesi il secondo cavaliere non può che essere l’erede di Cesare, Ottaviano Augusto, mentre le due donne potrebbero ragionevolmente raffigurare Giulia Minore, sorella di Cesare, e Azia Maggiore, figlia di Giulia e madre di Ottaviano. Con l’erezione di tale gruppo statuario, posto sopra l’Arco di Augusto, l’imperatore voleva forse sottolineare il suo legame di sangue con il Divo Giulio, del quale era sia pronipote che figlio adottivo, e lanciare un messaggio politico di avvenuta pacificazione espressa attraverso il braccio destro sollevato e proteso in avanti. Le statue potrebbero essere state trafugate negli anni della guerra greco-gotica, quando la città di Rimini era contesa tra Goti e Bizantini: secondo il ragionamento di Danilo Re il saccheggio fu perpetrato forse dai Longobardi, giunti in Italia come mercenari assoldati dal generale Narsete, ma poi subito allontanati a causa della loro eccessiva ferocia.
Museo dei Bronzi Dorati della Città di Pergola
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