“Contrariamente al brusio che inquina la quotidianità, le opere di Valentini esigono il silenzio, necessitano di una riflessione intima che può – in taluni momenti di grazia – aprire lampi di lucidità e avvicinare l’osservatore ai misteri di uno spazio inenarrabile”.
Vi sono artisti che manifestano nella loro opera un mondo immaginativo solo apparentemente pacificato e leggibile, che rivela invece, ad una occhiata lenta ed insistita, una visione inquieta e turbolenta, densa di allusioni ed illusioni, di riferimenti ideativi storici e formali che, nel mentre si manifestano, risultano distanziati dalle apparenze.
Qualcosa di simile avviene anche nell’opera di Walter Valentini che sembra infatti affermare il suo voler essere moderno, cioè contemporaneo a se stesso, dichiarando esplicitamente la consapevolezza di sapere che l’arte nasce sempre dalla storia dell’arte.
L’esibizione in superficie di riferimenti riconoscibili e leggibili concorre ad un contemporaneo distanziamento dai significati apparenti per giungere infine alla manifestazione di una immagine “altra”, densa di sorprendenti altri significati e perciò formalmente nuova e del tutto autonoma. Valentini mette cioè in atto una strategia espressiva che, mentre pare dichiarare apertamente la sua derivazione ideativa, avvia in pratica un fuorviante processo di distanziamento e di negazione.
Ciò avviene perche l’artista sa bene che l’arte del nostro tempo non tende più a rappresentare alcunché ma è essa stessa la rappresentazione di un evento visivo teso a determinare solo rapporti emotivi.
È forse per questa ragione, perciò, che nelle opere di Valentini le apparenze sembrano scivolare in profondità mentre emergono in superficie nuovi significati prima del tutto imprevisti ed inattesi.
In un processo che si manifesta nel confronto tra la storia del conosciuto e la memoria del veduto, dunque tra ragione e sentimento, progetto ed emozione.
Anche la lettura critica dell’opera di Valentini, in uno speciale rapporto di interdipendenza, è perciò obbligata ad una sorta di duplicità, non giungendo mai ad una definizione conclusiva, ma riaffermando in tal modo la specifica ambiguità dell’arte.
Dipende da quel “combattimento per l’immagine” che si avverte chiaramente all’interno della sua opera, configurando in definitiva il senso più autentico di una dualità entro la quale tutto avviene e si manifesta, nella doppia valenza esistente tra “il rigore della geometria e le fratture dell’arte”.
A ripercorrere il sentiero della ricerca di Valentini si capisce bene che quella attuale è una condizione ideativa in atto dall’inizio degli anni Ottanta, dal momento cioè in cui le sue opere abbandonano la superficie distesa della pittura – dove però la struttura compositiva dell’immagine era già esplicitamente matura, ai bordi della pura astrazione – e giungono invece a manifestarsi con sorprendenti rilievi spaziali e lancinanti scavi materici.
Non sorprende allora ritrovare un vecchio testo nel quale notavo che Walter Valentini era a ben vedere un “costruttore di spazi mentali, un architetto di strutture dell’utopia”.
L’artista delineava in tal modo una nuova modalità processuale che gli ha consentito di utilizzare ogni materiale – tela, carta, legno, metallo, la terracotta e il vetro – e qualsiasi procedimento tecnico – la pittura, la scultura, il disegno e l’incisione calcografica – per giungere infine ad occupare anche grandi spazi con vere e proprie stupefacenti installazioni che risultano davvero impressionanti nell’equilibrio della loro “aurea misura progettuale”. Come si può vedere in grandi opere, realizzate peraltro a distanza di molti anni, quali “Stanza del tempo” del 1982, o “La casa del cielo” del 2008, ad esempio.
Confermando peraltro, seppure in altri modi, la sua ossessiva intenzione utopistica che si manifesta infatti non solo nella ideazione dell’immagine, ma anche nella strutturazione concreta dell’opera.
Bisogna naturalmente tener presente a questo proposito che la formazione di Walter Valentini avviene all’inizio ad Urbino, cioè all’ombra della incombente presenza culturale di personalità quali Piero della Francesca e del suo allievo Luca Pacioli.
È qui che l’artista elabora una strategia espressiva che affida alla luce ed alla materia il ruolo di elementi fondanti di un’opera nella quale gli stessi segni e le stesse tracce materiche prendono una consistente autonomia, mentre il progetto diviene inevitabilmente un evento visivo clamoroso.
La classicità delle fonti ispirative, e perfino l’ordine e la misura “rinascimentale” a cui l’artista fa evidentemente riferimento, subiscono però, nell’apparizione delle sue opere, una sorta di sorprendente “messa in discussione”.
Avviene in effetti di verificare che il contrasto tra il rigore delle architetture segniche e le lancinanti fratture della materia sembrano indicare una condizione di “crisi” deliberatamente cercata per giungere non ad una semplice “opera fatta ad arte”, ma piuttosto a vivere direttamente, e dunque proporre ai riguardanti, un irrinunciabile evento poetico.
Lo spazio nelle sue opere assume allora la connotazione di una “armoniosa costruzione artificiale” la cui successiva lacerazione e distruzione è parte irrinunciabile, della radicale rivisitazione critica, in atto nel nostro tempo di incertezze e perplessità, delle storiche “regole della classicità”. Del resto gli stessi titoli che l’artista ha dato a molte delle sue opere – “Città ideale”, “Misura aurea”, “Porta del tempo”, “Incendio di Borgo”, in questo caso citando espressamente Raffaello – configurano vere e proprie trappole, forse indicazioni fuorvianti.
Giustificate dal fatto, come aveva acutamente notato a suo tempo anche Paolo Portoghesi, che viviamo “un momento storico in cui l’arte è costretta a convivere con la storia dell’arte, a misurarsi anzi con essa”, in un confronto certamente impari e stridente.
A pensarci bene è però in questa operazione di decostruzione che Valentini deposita sull’opera l’autentica e riconoscibile impronta della sua personale idea dell’arte perché è in tale maniera che egli impedisce all’architettura dei segni e alle fratture della materia di raffreddarsi come “reliquie” di un passato che egli sa bene irripetibile.
Il rispecchiamento visivo ed emotivo che le sue opere determinano inevitabilmente, avviene con particolari caratteristiche perché risulta giocato in una sorta di “esibizione dell’artificio”, in un confronto tra reale e irreale, presenza ed assenza, visibile ed invisibile, concretezza della materia ed evocazione dell’opera.
Qui le nozioni di tempo e di spazio perdono allora la connotazione di coordinate certe e misurabili, cioè scientifiche, e diventano invece dimensioni interiori dell’anima, in rapporto come sono ad un personale e fantastico immaginario di cui l’artista non da conto.
Essendo evidente che i suoi segni geometrici, i segmenti e gli archi che danno una struttura ordinata e seducente alle sue opere, a volte anche sovrapponendosi senza ragione gli uni agli altri, altre volte percorsi da inattese fratture e lacerazioni, inducono a percepire una illusoria e mutevole definizione, dello spazio e del riferimento temporale.
La “verità”, ma anche la modernità, dell’opera di Valentini, risiedono pertanto nel fatto che la sua partita espressiva è giocata essenzialmente sul terreno del misterioso e ambiguo linguaggio dell’arte.
Ma non dei linguaggi tecnici, perché è evidente che nella sua proposizione ideativa non esiste più alcuna gerarchia espressiva e il suo mondo immaginativo si manifesta sempre con uguale identità formale, qualunque sia il procedimento o la materia adottati.
È interessante notare a questo proposito che nel radicale cambio ideativo che Valentini mette in atto quando i fondali delle sue opere passano dal bianco al grigio scuro – come in opere quali “Le misure del cielo” del 1990, o “La porta del cielo” del 1995 – esse non subiscano alcuna alterazione formale.
Straordinarie risultano in tale prospettiva le sue incisioni calcografiche per le quali Valentini è stato non a caso definito uno “scultore della pagina bianca”. Sulla quale è riuscito a depositare, da un lato tutta la sapienza storica della Scuola di Urbino, e, allo stesso tempo, esprimere una incredibile capacità tecnico-innovativa che gli ha consentito di trasformare la carta in una preziosa materia in grado di disvelare, si potrebbe dire alchenicamente, inedite possibilità plastiche e formali. Sopportando forti pressioni fino a divenire, essa stessa, segno bianco in rilievo, o materia granulosa bianca, come avviene anche nei dipinti, dovuta ad uno “schiaccio a secco” della matrice, come si dice in gergo, cioè senza inchiostro.
Tutto ciò può apparire una notazione per certi versi tecnica ma è invece necessariamente espressiva, all’interno del mondo di Valentini, e meriterebbe una particolare attenzione per capire la preziosa bellezza dei suoi numerosi “libri d’artista”, molti realizzati per le edizioni di Colophon Arte.
La sua opera incisa rappresenta in prospettiva storica una sorta di mutazione epocale della specificità del linguaggio, e indica anche la urgente necessità del suo rinnovamento espressivo e formale, in particolare nelle scuole d’arte, perché per troppo tempo bloccato da un malinteso senso della tradizione che artisti come Stanley Hayter, Henry Goetz e lo stesso Emilio Vedova, hanno a suo tempo chiaramente segnalato e documentato a livello internazionale.
Perciò le cosiddette “dissonanze armoniose” di Valentini – emergenti dal conflitto tra la rigorosa organizzazione geometrica dei fondali e le sorprendenti fratture dei suoi interventi sulle superfici materiche – rispondono a ben vedere a regole interne e non reclamano alcuna giustificazione tecnica ed estetica.
Come accade di pensare con il rigore della geometria dei dipinti di Mondrian, così apparentemente ingiustificato, o nel gesto innovativo e clamoroso di Lucio Fontana che, con un improbabile buco o un lacerante taglio della tela, ha azzerato tutta la storica funzione narrativa dell’arte.
Senza voler indicare con tali esempi alcun riferimento ideativo perché, nel caso di Valentini, viene piuttosto da segnalare una sua assonanza ideale rivelata nella mostra del 2014 nella Casa Museo di Monte Vidon Corrado, dove l’opera “La danza delle stelle”, viene indicata come un esplicito “omaggio ad Osvaldo Licini”, forse il più poetico artista italiano del XX secolo.
Una preziosa occasione espositiva nella quale un bel testo di Daniela Simoni ha messo in rilievo, tra le atre cose, la simbologia alchemica di tutta l’opera di Valentini, la valenza poetica della sua geometria “che non offre soluzioni certe e immutabili ma sottende il grande enigma, proprio come in Licini” e il ricorrente impiego del “labirinto che indica il cammino interiore verso la conoscenza del sé”.
Per queste ragioni le opere di Walter Valentini contengono al loro interno, con tutta evidenza, molti interrogativi ideativi ed irrisolte questioni formali.
Ma è tuttavia proprio da questi aspetti che nasce il suo nuovo e personale ordine compositivo, e deriva forse anche quella sorta di bellezza non intenzionale che lo caratterizza clamorosamente.
Quegli interrogativi restano peraltro sempre senza risposta ma concorrono comunque a definire la manifestazione di un progetto espressivo teso alla ricerca di una nuova “verità formale ed immaginativa”.
Perché Valentini sa bene che, come è stato detto molte volte ,”tutto è stato fatto e tutto è ancora da fare”.
Appare allora evidente che la sua opera obbliga ad una riflessione anche sulla fine delle avanguardie del XX secolo perché il problema del nostro tempo, un tempo di invasive, anzi dilaganti immagini elettroniche, non è più quello dell’aggiornamento dei linguaggi espressivi dell’arte, ma piuttosto quello del radicale mutamento del nostro rapporto visivo ed emotivo con le immagini.
L’intenzione di Valentini è dunque anche quella di rappresentare la libertà dell’artista di fronte alla storia, di andare oltre il tempo del prima e del dopo.
In un’operazione tesa a lasciare tracce riconoscibili e durature, cioè persistenti, del suo passaggio esistenziale, esprimendo infine soltanto la sua personale poesia immaginativa, in definitiva il suo irrinunciabile sogno dell’arte.
Venezia, febbraio 2017
Enzo Di Martino
Museo dei Bronzi Dorati della Città di Pergola
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